di Marcello Ravveduto
La follia della camorra
La follia della camorra
Contro il silenzioso permeare della criminalità organizzata in quasi ogni aspetto della vita politica, economica e sociale del nostro paese si mobilita una fetta sempre più grande della società civile, armata oggi di una nuova consapevolezza: quella che la criminalità riesce a sfruttare anche il più piccolo spazio lasciato vuoto e incontrollato per trarre ogni possibile beneficio funzionale alla propria sopravvivenza e al mantenimento del proprio potere.
Un deciso ostacolo all’espandersi di questa macchia può, e deve essere fornito dall’individuazione di quei canali che ne rendono possibile l’avanzata, e tra questi gli innumerevoli spazi di contiguità e di interlocuzione creatisi, nel corso degli anni, tra criminalità e fasce professionali di vario genere
Sono questi i tanti puntini che, uniti, nel loro complesso hanno finito per creare una pericolosa area grigia di connivenza, nella quale oltre che la collaborazione consapevole, molto spesso anche la semplice disattenzione, l’ignoranza o l’inesperienza hanno finito col favorire l’attività delle mafie nel nostro paese.
La malattia mentale, e l’attività di chi ha a che fare professionalmente con questo problema, entra a vario titolo in gioco nella storia della criminalità. Lo racconta Corrado De Rosa* ne “I Medici della camorra” (Castelvecchi editore), ponendo l’attenzione su una particolare branca della medicina, la psichiatria, sfruttata da criminali di ogni genere per i benefici che può procurare a chi richieda una perizia: dallo sconto di pena alla incompatibilità col regime carcerario fino ad arrivare al riconoscimento di vere e proprie forme di invalidità, che addirittura consentono a pericolosi killer ed affiliati di ogni grado, di fruire di trattamenti pensionistici e vitalizi spesso negati, per ostacoli e difficoltà burocratiche, ai cittadini “normali”.
Il libro affronta proprio quella contiguità tra mafie e aree professionali descrivendo, attraverso biografie ed episodi, il metodo e l’utilizzo sistematico delle perizie da parte di affiliati e capi clan per ottenere benefici di giustizia. Esplicita, inoltre, come la malattia mentale venga utilizzata per alimentare la cosiddetta “macchina del fango” che, attraverso la delegittimazione, scredita e svilisce ogni passo compiuto in direzione contraria all’impetuosa marcia della criminalità.
Depressi, anoressici, paranoici sono coloro che vogliono uscire di prigione. Pazzi, visionari, tossicodipendenti e dunque inattendibili quelli che li accusano, i collaboratori di giustizia, e tutti coloro che cercano di combattere la mafia con l’arma della parola.
La malattia mentale, nelle mani della criminalità, diventa allo stesso tempo strumento di difesa e arma offensiva potentissima.
Non stupisce che a spingere uno psichiatra ad affrontare un tema tanto delicato sia, tra gli altri stimoli, proprio la scoperta di una grande contraddizione nell’applicazione pratica dei suoi studi: una branca medica che ha combattuto e combatte da anni lo stigma del malato di mente, quando è coinvolta nel campo delle perizie, dei tribunali, o meglio ancora quando entra in contatto con la criminalità mafiosa, si trova di fronte a un mondo il cui solo interesse è lottare per appropriarsi dell’etichetta di pazzo nel tentativo estremo, spesso vincente, di farla franca, relegando chi soffre realmente di disturbi psichici nel “cimitero” dei senza voce.