Il racconto per il Post del viaggio per portare aiuto nella zona evacuata e nei centri di accoglienza allestiti per gli sfollati
9 aprile 2011 | Mondo | di Simone Pieranni
Giornalismo low cost che incontra questo strambo gruppo di volontari giapponesi. Si parte alle 7 di mattina, nei pressi di una stazione ferroviaria poco fuori Tokyo. Io e quattro giapponesi, di cui due punkettoni, vegetariani e animalisti. Nel mini van si può fumare (i fumatori che vivono in Giappone sapranno apprezzare il dato).
Abbiamo con noi attrezzatture, tute plastificate, mascherine, occhiali e polveri di cui cospargersi tutto il corpo una volta tornati indietro, e rilevatore (uguale a quello dei giornalisti giapponesi). I primi aiuti sono per due scuole di Iwari: giocattoli e manga. Foto di gruppo, mille ringraziamenti, ancora foto di gruppo a futura memoria.
Poi andiamo a circa 30 chilometri da Fukushima, percorrendo la strada sul mare, dove possiamo vedere i ricordi dello tsunami, tra case sventrate e barricate di detriti ai bordi delle strade. Andiamo nella struttura più grossa che ospita i rifugiati. Per lo più anziani, raccolti in una palestra. Solo dieci bambini all’interno, migliaia di giornalini di Dragon Ball in casse appoggiate per terra costituiscono una specie di biblioteca improvvisata. Cibo e acqua ci sono. Il responsabile ci mette a nostro agio, si fa per dire: fossi in voi me ne andrei subito, ci dice. Penso si metterà a piovere e sarà ancora peggio, aggiunge.
Entriamo dunque e arriviamo a 15 km dalla centrale. Come i giornalisti giapponesi, che hanno realizzato un video avvicinandosi all’impianto di Fukushima I, vediamo passare due autobus di gente bardata con tute e contro tute, ma i dati sono rassicuranti: tra 3 e 6 microsievert, anche se a terra i numeri sono più elevati. Abbiamo appena comprato chili di cibo per cani e cerchiamo ovunque quelli rimasti nella zona evacuata. Poco prima, nel rifugio, una coppia ci ha descritto i loro due amici a quattro zampe. La famiglia è stata prelevata in fretta e furia, senza poter prendere niente in casa. Avevano anche due mucche, scopriremo che una è morta, mentre l’altra è stata liberata dall’esercito. Chissà dove sarà. Ne troviamo alcuni di cani, compresi quelli della famiglia nel rifugio: lasciamo il cibo a terra, dopodiché percorriamo una strada aperta in due e tra mille sbalzi arriviamo a 9 chilometri dalla centrale.
A questo punto il rilevatore impazzisce, supera in pochissimi secondi il fatidico numero 10 e velocemente torniamo indietro. Non possiamo andare al centro dei volontari, non so bene per quale disguido burocratico. Finiamo così in un locale di musica punk cinese di Iwari non in attività aperto da un amico dei volontari: lì ci cambiamo, ci laviamo e ci cospargiamo di polvere per ridurre il pericolo di contaminazione. Dormiamo per qualche ora abbracciati alle casse e l’indomani ricominciamo il giro dei centri per i rifugiati, tenendoci sempre tra i 20 e i 30 chilometri dalla centrale. Infine Tokyo.
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