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venerdì 15 aprile 2011

Tratto da http://xstruggleforpleasurex.blogspot.com


Isole di plastica

Se qualcuno vi chiedesse che cosa hanno in comune oceano Pacifico, oceano Atlantico e mar Mediterraneo, probabilmente non pensereste che una delle possibili risposte alla domanda è: un’enorme “isola” di plastica galleggiante!

Questo è, purtroppo, quanto è stato rilevato negli ultimi anni dalle sempre più accurate scansioni della superficie terrestre via satellite.
È all’incirca tra il 135° e il 155° meridiano Ovest e fra il 35° e il 42° parallelo Nord, che si trova il Pacific Trash Vortex” (o Great Pacific Garbage Patch); non si sta parlando di una qualche esotica ed affascinante meta turistica del Pacifico, bensì del più grande accumulo di rifiuti in acque marine della terra , localizzato grosso modo tra la California e le Hawaii, è composto per la quasi totalità da plastica galleggiante, tanto da assumere le sembianze di una vera e propria isola!


Trattandosi di materiale in sospensione non strettamente coadiuvato esistono serie difficoltà nel fornire dettagliate descrizioni delle dimensioni reali dell’accumulo di immondizia, tuttavia sono reperibili sul web stime indicative che vanno da un minimo di 700.000 km2 ad un massimo almeno dieci volte superiore. Probabilmente non è immediato realizzare quanto siano spropositate queste misure, quindi per concretezza ritengo opportuno ricordare che la superficie dell’Italia intera è di poco superiore ai 300.000 km2.

Tale accumulo pare essere principalmente dovuto all’azione del North Pacific Subtropical Gyre, una corrente oceanica caratterizzata da movimento a spirale in senso orario che favorirebbe l’aggregarsi delle particelle in sospensione nella colonna d’acqua.

Il Pacific Trash Vortex fu scoperto per caso nel 1997 dal famoso oceanografo americano Charles Moore durante un viaggio in mare nella zona interessata, ma si stima che l’accumulo sia cominciato a partire dagli anni ’50. Moore rivela di essere rimasto stupefatto nel constatare di essere stato in ogni istante di quel viaggio costantemente circondato dai rifiuti.

Moore è del parere che nella suddetta regione circolino almeno 100 milioni di tonnellate di detriti galleggianti. Ma ancora più stupefacenti sono le parole proferite dall’oceanografo sul fatto che se i consumatori non ridurranno l’utilizzo della plastica usa e getta l’isola di detriti potrebbe facilmente raddoppiare le sue dimensioni nel prossimo decennio.

Marcus Eriksen, il ricercatore che dirige la US-based Algalita Marine Research Foundation (fondata da Moore), tiene a precisare in una sua dichiarazione (riportata in fondo in lingua originale) che l’ammasso detritico non si presenta come una superficie solida, si tratta bensì di una “zuppa” fluida e non omogenea. Quel che più spaventa del discorso di Eriksen è quanto dichiara in riferimento alle presunte dimensioni del cumulo di rifiuti, che si estenderebbe, a suo dire, per un’area doppia a quella degli USA!

Un altro oceanografo, Curtis Ebbesmeyer, studia e monitora le“isole di plastica” da oltre quindici anni. Egli si sofferma invece sul reale disagio che si verifica quando avviene il contatto tra il cumulo di rifiuti galleggiante e le coste della terra ferma, egli spiega infatti di come le spiagge si ricoprano in breve tempo di una quantità spropositata di pezzi più o meno minuti di plastica, come è avvenuto più volte in diverse isole dell’arcipelago delle Hawaii.

Uno dei pericoli che istantaneamente si delineano in questo ostico scenario è sicuramente il rischio ecologico, stando infatti ai dati riferiti dall’UNEP (United Nations Environment Programme), il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, i detriti di plastica provocano la morte di oltre un milione di uccelli marini ogni anno, e più di 100.000 mammiferi marini. Siringhe, accendini, spazzolini da denti sono solo alcuni tra gli oggetti più comuni ritrovati nello stomaco di uccelli marini morti, che pare scambino questi oggetti per cibo.



Ma i problemi non sono esclusivamente riservati alla fauna, infatti sono ben noti anche i rischi per la salute umana; le industrie riversano nelle acque centinaia di milioni di piccole “pallottole” di plastica ogni anno, queste, come spiega Eriksen, si comportano come spugne chimiche artificiali che attirano composti di natura antropica come diversi idrocarburi e residui di DDT, che poi entreranno a far parte della catena alimentare contaminando i nostri cibi giungendo in questo modo fino a noi.

A peggiorare la situazione è, come spiega il chimico Tony Andrady, l’elevata longevità dei materiali che caratterizzano il cumulo di detriti, aspetto che tende a proiettare la situazione di disagio anche nel futuro. A differenza dei rifiuti biologici, spontaneamente sottoposti alla biodegradazione, le plastiche e i materiali affini vanno incontro a “fotodegradazione”, un processo chimico-fisico dovuto a radiazioni luminose, per cui un composto muta la sua struttura; in questo caso la fotodegradazione porta alla depolimerizzazione della plastica che va via via degradandosi in particelle di dimensioni sempre minori fino ad arrivare alle dimensioni dei polimeri che difficilmente continuano a degradarsi. Il galleggiamento di queste micro-particelle porta ad un processo simile a quello già spiegato in precedenza da Eriksen, accade infatti che queste minute particelle vengono scambiate per zooplancton da animali quali gli cnidari che se ne nutrono, introducendole dunque nella catena alimentare.

È stato trattato nello specifico il caso del Pacific Trash Vortex dal momento che rappresenta probabilmente uno dei casi di “isole di plastica” più studiati a livello internazionale, e sul quale sono disponibili maggiori dati, ma come detto inizialmente si è a conoscenza di diverse zone nel globo in cui questo fenomeno accade, è bene notare a tal proposito che di recente si è parlato anche del Mediterraneo come sede di un accumulo di spazzatura galleggiante anche se chiaramente di dimensioni sensibilmente più ridotte (all’incirca 500 tonnellate di detriti di materie plastiche galleggianti).

È possibile che la questione susciti l’interesse di molti, soprattutto sapendo che le nostre stesse coste si stanno avviando verso uno scenario cupo in questa direzione. Occorrerebbe forse cominciare a sensibilizzare i cittadini della comunità sulla tematica, attuare modelli di prevenzione all’inquinamento delle acque incentivando magari un utilizzo più ponderato delle materie sintetiche che potrebbero andare a ostruire processi fondamentali degli ecosistemi naturali, provvedere ad un adeguato smaltimento di tali materiali e forse cominciare a ripulire le zone colpite con spedizioni navali per tentare di ristabilire ciò che rimane dei precedenti equilibri naturali. Chiaramente per tutte queste attività è necessario un coinvolgimento attivo della politica e la conseguente messa in pratica di regolamentazioni atte a far funzionare i piani.




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